Razionalmente, un articolo non vale la galera. Anche se diffamatorio. Perché fare il giornalista non è mestiere facile. Sempre alla ricerca della notizia, dello scoop, delle fonti giuste. Ed è facile sbagliare. Inesperienza, disattenzione, poca professionalità, voglia di sensazionalismo, inattendibilità della fonte. Il giornalista potrebbe sbagliare per tutti questi motivi, anche gravi, senza per questo meritarsi la galera.
La questione è piuttosto la buona fede del cronista. È qui che occorre fare un accurato distinguo. Per il ‘cattivo’ giornalista, magari assoldato dal potente di turno per denigrare ‘il nemico’, l’azione diffamatoria sarebbe fin troppo facile (se non persino conveniente). Al solo prezzo di una multa.
E se è giusto che il polverone alzato dal caso Sallusti (nonostante altri giornalisti abbiano già assaggiato le patrie galere per lo stesso reato) porti ad un’attenta riflessione sulla normativa vigente e sulla necessità di cambiarla; altrettanto importante è che tale riflessione affronti concretamente la natura subdola del reato di diffamazione a mezzo stampa, lesiva della dignità nonché della vita privata e/o professionale dell’offeso. Lo abbiamo visto con la macchina del fango, con il ‘metodo Boffo’: sono esempi di un giornalismo malato, lontano dall’etica e dalla deontologia professionale.
“Se da un verso la pena detentiva non è adatta – ha detto il Ministro Severino – dall’altra bisogna trovare un modo di riparare un danno”. Cambiare la norma va bene dunque, ma occorrono strumenti idonei a distinguere la causa della diffamazione: errore o dolo? E in quest’ultimo caso, la ‘semplice’ multa può bastare?